Sorpresa nella depressione dopo sforzo massimale e submassimale

 

 

ROBERTO COLONNA

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XIV – 16 aprile 2016.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE]

 

Anche se le basi neurofunzionali dell’esercizio motorio e dell’allenamento sportivo costituiscono un ambito di conoscenza ben consolidato da decenni, sarebbe erroneo ritenere che ormai si conosca ogni aspetto dei processi correlati che hanno luogo nel sistema nervoso centrale e della logica funzionale che li sostiene. Lo studio della neurofisiologia della corteccia motoria, in particolare, sembra in grado di riservare ancora delle sorprese.

All’interno della corteccia motoria primaria (M1), dopo uno sforzo muscolare, si verifica un fenomeno noto come depressione post-esercizio, che si caratterizza per una modificazione dell’eccitabilità corticomotoria. Attualmente, però, non è noto se 1) la riorganizzazione funzionale corticomotoria che segue la fatica muscolare differisce in base all’entità (magnitudo) della forza impiegata, ovvero dello sforzo prodotto, e se 2) si verifica una riorganizzazione corticomotoria misurabile mediante un metodo basato sulla stimolazione magnetica transcranica (TMS, da transcranial magnetic stimulation).

Cunningham e numerosi colleghi, prevalentemente in attività presso il Dipartimento di Ingegneria Biomedica del Lerner Research Institute della Cleveland Clinic nell’Ohio (USA), hanno realizzato uno studio allo scopo di chiarire questi due punti e, con una certa sorpresa, hanno registrato un risultato in parte inatteso, perché contraddice un criterio di ragione intuitiva (Cunningham D. A., et al. Post-exercise depression following submaximal and maximal isometric voluntary contraction. Neuroscience – Epub ahead of print Apr 4 doi: 10.1016/j.neuroscience.2016.03.060, 2016).

La provenienza degli autori è la seguente: Department of Biomedical Engineering, Lerner Research Institute, Cleveland Clinic, Cleveland, OH (USA); School of Biomedical Sciences, Kent State University, Kent, OH (USA); Center for Neurological Restoration, Neurosurgery, Neurological Institute, Cleveland Clinic, Cleveland, OH (USA); Department of Physical Medicine and Rehabilitation, Rutgers New Jersey Medical School, Rutgers University, Newark, NJ (USA).

Per secoli si è ritenuto che la corteccia cerebrale umana fosse responsabile unicamente di funzioni di “ordine superiore”, ossia dei processi alla base del pensiero, della rievocazione, dell’anticipazione, delle abilità logiche, di astrazione, di comunicazione, di elaborazione cognitiva dell’esperienza, e così via. Solo a metà del XIX secolo, basandosi sull’osservazione di casi di epilessia motoria, il neurologo John Hughlings Jackson avanzò l’ipotesi che una specifica parte della corteccia cerebrale del lobo frontale avesse un ruolo causale nella genesi dei movimenti. Le manifestazioni cliniche osservate da Jackson durante le crisi epilettiche consistevano in improvvisi e ripetuti movimenti spastici involontari, che a volte sembravano frammenti delle sequenze che eseguiamo nelle azioni volontarie finalizzate ad uno scopo preciso. Durante ciascun episodio le contrazioni si estendevano a diverse parti del corpo secondo una sequenza temporale fissa, che variava da un paziente all’altro. Tale schema di manifestazioni si definisce ancora oggi in neurologia marcia jacksoniana. Jackson dedusse che l’attività elettrica parossistica dei foci epilettici localizzati nelle aree della corteccia frontale prossime al solco centrale fosse responsabile dell’attivazione spastica, automatica e involontaria, di frammenti degli atti motori che in condizioni normali sono guidati dall’intenzionalità volontaria ed espressi nella loro armonica ed integrata compiutezza. Jackson propose che la progressione delle manifestazioni convulsive neuromuscolari lungo i segmenti corporei fosse la conseguenza della diffusione dell’attività elettrica parossistica attraverso piccoli blocchi di neuroni, ciascuno dei quali preposto al controllo motorio di una parte di periferia muscolare secondo una precisa mappa somatotopica. Per inciso, si ricorda che questa interpretazione costituì il principale riferimento per la concezione localizzatrice delle funzioni corticali, insieme con le osservazioni di Paul Broca sull’afasia motoria da lesione del piede della circonvoluzione frontale inferiore (area 44 di Brodmann) e di Karl Wernicke sull’afasia recettiva da lesione di territori circostanti il giro angolare (area 22 di Brodmann). Una concezione tanto influente da costituire la traccia sulla quale un secolo dopo fu sviluppato il modello classico della fisiologia della corteccia cerebrale umana, grazie agli studi di Penfield e Rasmussen nell’uomo e di Woolsey nella scimmia.

Un contributo decisivo all’identificazione delle aree corticali implicate nell’avvio del movimento lo diede negli anni Cinquanta del Novecento la tecnica, impiegata da Herbert Jasper, della registrazione cronica mediante microelettrodi dell’attività elettrica di neuroni cerebrali di animali impegnati in attività naturali. Un lungo e faticoso cammino sperimentale ha portato dall’identificazione della corteccia motoria primaria (M1) come base per l’origine dei comandi motori, alla comprensione della natura di tali comandi quali codici di popolazioni neuroniche. Solo di recente, questo metodo che consente di rilevare ed erogare stimolazioni elettriche (microstimolazione intracorticale), è stato integrato, nello studio di soggetti umani, dall’imaging funzionale e dalla TMS.

Per accertare se la TMS consenta di rilevare la riorganizzazione corticomotoria dopo sforzo muscolare intenso e se questa dipenda dalla magnitudo della forza prodotta dalla contrazione muscolare, Cunningham e colleghi hanno disposto un setting sperimentale che ha reclutato quindici giovani in buona salute, 8 donne e 7 uomini di età compresa fra i 22 e i 25 anni (23.8 ± 1.4). La verifica è stata effettuata grazie ad un tipico studio basato sul confronto di misure individuali per ciascuno dei soggetti partecipanti (a within-subjects, repeated measures design) del campione di 15 volontari, che si è sottoposto a tre sessioni di prove ad intervalli di una settimana.

I giovani hanno eseguito sessioni separate di ciascuna delle seguenti prove: 1) contrazione isometrica di bassa forza, corrispondente al 30% di contrazione massimale volontaria (maximal voluntary contraction, MVC); 2) contrazione isometrica di alta forza, corrispondente al 95%, del primo muscolo interosseo dorsale (first dorsal interosseous, FDI), fino all’esaurimento autopercepito; 3) sessione di riposo di 30 minuti come stato fisiologico di base fungente da controllo.

Impiegando procedure basate sulla TMS, i ricercatori hanno studiato dettagliatamente l’area motoria primaria M1 e la superficie corticale immediatamente circostante. In particolare, hanno esaminato le variazioni nella mappa corticomotoria, l’eccitabilità dei neuroni motori all’interno dell’area e all’intorno, e la rappresentazione corticale del muscolo FDI.

Il principale rilievo è stato che, a seguito della fatica di bassa forza, ma non con quella dello sforzo elevato (!), l’area della mappa corticomotoria si riduceva, così come si riduceva l’eccitabilità, con questi dati: di 3cm(2) t (14) = -2.94, p = 0.01 e 56% rispettivamente t (14) = -4.01, p < 0.001.

Si è poi rilevato che la regione dell’eccitabilità corticomotoria si spostava in direzione posteriore. (6.4 ± 2.5mm) (t (14) = - 6.33, p = .019).

L’output corticomotorio diventava meno eccitabile, particolarmente nelle regioni circostanti M1.

Complessivamente, i dati mostrano che la depressione post-esercizio è presente nella fatica di basso grado, ossia nel piccolo sforzo, ed assente nella fatica di alto grado, ossia nello sforzo prossimo ai livelli massimali. Tali dati, suggeriscono gli autori dello studio, possono essere indicativi di un accresciuto feedback sensoriale durante la fase di recupero dallo sforzo.

Ulteriori studi contribuiranno a definire e chiarire il valore neurofisiologico di quanto emerso da questo studio.

 

L’autore della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Roberto Colonna

BM&L-16 aprile 2016

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

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